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ASPETTANDO POLLY JEAN

TUTTO QUELLO CHE SAPPIAMO SUL NUOVO DISCO IN USCITA IL 7 LUGLIO

Sono trascorsi pochi giorni dall’ascolto di A Child’s QuestionAugust, il primo singolo dell’attesissimo nuovo album di PJ Harvey, I Inside the Old Year Dyingil decimo dell’artista dopo 7 anni di silenzio.

Il brano, un delicatissimo esercizio di folktronica, pur conservando quell’alone di mistero e imperscrutabilità che sono da sempre una delle cifre più caratterizzanti della musica della cantautrice del Dorset, ha un che di rassicurante e sinuoso: una carezza di vetro.

Pochi accordi in un muro di echi e riverberi, immagini pastorali, parole sconosciute e, su tutto, una richiesta commovente che ritorna: Love me Tender, Tender Love.

Nell’attesa di scoprire come sarà questo nuovo, sospiratissimo album, proviamo a mettere insieme tutto quello che sappiamo.

PUBBLICAZIONE DELL’ALBUM

I Inside the Old Year Dying uscirà il 7 luglio 2023 per Partisan Records ed è disponibile per il pre-ordine in vinile gatefold 140g e CD. Nello store ufficiale di PJ Harvey è disponibile un numero limitato di lyric cards firmate a mano. Il singolo A Child’s QuestionAugust è stato pubblicato il 26 aprile, dapprima trasmesso in anteprima su BBC Radio 6 Music, durante lo show di Lauren Laverne tra le 8:30 e le 9 BST, per poi essere rilasciato su tutte le piattaforme di streaming.

LA NUOVA ETICHETTA

La notizia, passata un po’ in sordina, ha del clamoroso: dietro il nuovo album di PJ Harvey non c’è più la Island, etichetta che per anni l’ha accompagnata nel suo percorso, ma la super label indipendente Partisan Records, che vanta nella sua scuderia Beth Orton, Bombino, Cigarettes After Sex, Fonaines D.C, Idles, Laura Marling, Tha Black Angels e molti altri.

LA TORMENTATA GENESI DEL DISCO

La genesi del disco risale a sei anni fa, alla fine del tour di The Hope Six Demolition Project nel 2017, e a come Harvey si è sentito subito dopo. “Ero piuttosto smarrita“, ha raccontato. “Non ero davvero sicura di quello che volevo fare: se volevo continuare a scrivere album e a suonare, o se era arrivato il momento di cambiare vita – ‘Ok, ho fatto questo per molto tempo. Voglio continuare per il resto della mia vita a fare la stessa cosa?“. Ciò che sentiva fortemente era che da qualche parte, nel ciclo infinito di album e tournée, aveva perso il suo legame con la musica stessa, una consapevolezza che la turbava oltre ogni dire. “Non riesco a esprimere quanto mi si sia spezzato il cuore. Era sempre stata il mio tutto, il mio modo di capire“.

L’INCONTRO CON STEVE McQUEEN

A Chicago, durante il tour di Hope Six, si è imbattuta nel celebre regista, che pare le abbia detto: “Polly, devi smetterla di pensare alla musica come se si trattasse di album di canzoni. Devi pensare a ciò che ami. Ami le parole, ami le immagini e ami la musica. E devi pensare: ‘Cosa posso fare con queste tre cose?”.

LA GUARIGIONE

L’altro catalizzatore del ritorno alla musica è stato semplice: il puro atto di suonare. “Per cercare di guarire – e non riesco a trovare una parola migliore da usare – andavo al pianoforte o alla chitarra e suonavo le mie canzoni preferite di altre persone: molte canzoni di Nina Simone, o “What A Wonderful World” – che mi facevano piangere mentre le suonavo – o [dei Mamas and The Papas] “California Dreamin'”, o “Golden Brown” degli Stranglers. E mi rendevo conto: “No, è ancora lì; amo ancora così tanto questa cosa che è come se mi tenesse in vita“. Quando PJ ha iniziato a scrivere nuove canzoni, ha avvertito la sensazione liberatoria di fare musica per se stessa, piuttosto che i primi passi nel ciclo album-tour-album-tour. Ha attinto al senso di libertà creativa che aveva provato in passato nel lavoro musicale su colonne sonore e in teatro. Allo stesso tempo, la sua prospettiva si stava spostando dai grandi temi di Let England Shake e Hope Six (“guardare fuori, alla guerra, alla politica, al mondo”) verso qualcosa di più intimo e umano. “Avevo istintivamente bisogno di un cambiamento di scala”, dice. “C’era un vero desiderio in me di tornare a qualcosa di veramente piccolo, in modo che si riducesse a una persona, a un bosco, a un villaggio“.

PARISH E FLOOD: I COLLABORATORI DI SEMPRE PER UNA NUOVA SFIDA

Le nuove canzoni, ha dichiarato, “sono venute fuori in circa tre settimane“. Ma quello era solo l’inizio. La chiave di ciò che sarebbe accaduto in seguito – ai Battery Studios, nel nord-ovest di Londra – risiedeva in un legame che risale ormai a quasi trent’anni fa, tra Harvey, il suo storico collaboratore e partner creativo John Parish e il producer Flood. “Questo disco suona così grazie al nostro rapporto e al fatto che abbiamo lavorato insieme per così tanti anni“, dice l’artista. “Noi tre ci riuniamo e vogliamo tutti la stessa cosa: sfidare noi stessi e non ripeterci“. Questo atteggiamento ha attraversato tutto il loro lavoro, ma questa volta si è trasformato in una missione esplicita: evitare tutto ciò che ricorda il loro passato musicale.

IL LAVORO SULLA VOCE

Non credo di aver mai cantato così bene come in questo disco“, dice. “Ancora una volta, credo che questo derivi dall’essere un po’ più vecchia. Ma è anche dovuto alla mia assoluta fiducia in Flood e John e al fatto che ho permesso loro di mettermi in situazioni che non erano confortevoli. Ogni volta che sembrava che stessi cantando con quella che loro chiamano la mia voce da PJ Harvey, veniva posto il veto”. “Ricordo che con “Prayer at the Gate”, Flood mi incoraggiava a cantare come se fossi molto più vecchia di quella che sono, e ad avere qualcosa di disperato nella mia voce. Non mi riconosco nemmeno. In “All Souls” non credo di aver mai cantato in un tono così basso e in un modo così trattenuto. Mentre provavamo I Inside the Old I Dying ero in piedi nella sala vocale con le cuffie e Flood mi ha detto: ‘No, no, sembri PJ Harvey'”. Alla fine pare abbia registrato la voce a occhi chiusi, senza rendersi nemmeno conto di dove fosse il microfono.

UN POSTO NUOVO

Sono in un posto dove non sono mai stata prima“, ha dichiarato PJ Harvey. “Cosa c’è sopra, cosa c’è sotto, cosa è vecchio, cosa è nuovo, cosa è notte, cosa è giorno? È tutto uguale, in realtà, e ci si può entrare e perdersi. Ed è quello che ho voluto fare con il disco, con le canzoni, con il suono, con tutto“. Questa è una parte importante della magia dell’album. In tutte queste ombre e ambiguità, c’è qualcosa di profondamente redentivo. “Penso che l’album parli di ricerca, di ricerca – l’intensità del primo amore e la ricerca di un significato“, racconta Harvey. “Non che ci debba essere per forza un messaggio, ma la sensazione che ricevo dal disco è quella dell’amore, che si tinge di tristezza e perdita, ma è sempre amore. Credo sia questo che lo faccia sentire così accogliente: così aperto“.

Valentina Zona

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