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Bologna | Estragon | 26 Ottobre
Erano ancora gli anni ’80 quando John Lydon e i suoi P.I.L. mettevano piede in Italia per l’ultima volta. Johnny Rotten cominciava ad essere un ricordo lontano, che lasciava il posto a quel personaggio dall’aria allucinata e i capelli rossastri che cantava “I could be right, I could be wrong, I could be white, I could be black” su “Deejay Television”.
Ne è passata di acqua sotto i ponti da allora. I P.I.L. si sono dissolti lentamente e, dopo il triste tentativo di riesumare i Sex Pistols, Lydon ha anche trovato il tempo di rendersi ridicolo partecipando alla versione inglese dell’ “Isola dei famosi”. Ci sono voluti circa trent’anni prima che il nostro si decidesse a rimettere in piedi il suo progetto più ambizioso. Ma come giudicare questa operazione, dalle premesse posticce del puro revival?
Da uno che sulla “grande bugia del rock’n’roll” ci ha costruito una carriera ci si può aspettare di tutto. Eppure, a giudicare da ciò che si è visto e sentito all’Estragon di Bologna lo scorso 26 Ottobre, il ritorno dei P.I.L. sulle scene ha veramente ben poco a che vedere con l’idea di revival.
Accompagnato dal polistrumentista Lu Edmonds e da Bruce Edwards già, rispettivamente, chitarrista e batterista della band tra il 1986 e il 1990, ai quali si è aggiunto Scott Frith al basso, John Lydon ha confermato di essere l’animale da palcoscenico che tutti ricordano. Forse un po’ più educato e professionale, ma pur sempre capace, una volta “on stage”, di mettere da parte le pagliacciate e regalare al pubblico soltanto la vibrante cantilena della sua voce, la sua firma indelebile.
Niente revival, dicevamo. Sul palco dell’Estragon è salita una band ancora capace di reinventarsi, riarrangiando il proprio repertorio senza la paura di indispettire qualche nostalgico. I P.I.L., di aprire semplicemente un vecchio libro non ci pensano neanche e a classici come Albatross, Public Image, Annalisa, This is not a love song, Death Disco e Rise, hanno accostato i brani del nuovo album This is P.I.L. senza soluzione di continuità. Come se il racconto della loro musica non si fosse mai interrotto. Anche a costo di sacrificare Religion, invocata dalle prime file per tutta la durata del concerto.
Daniele Follero
ph Rudy Filippini