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WATERBOYS | Roma | Auditorium

Roma | Auditorium Conciliazione | 21 novembre

Devo aver sempre avuto un conto aperto, da qualche parte, con i Waterboys. Cresciuto a pane e Big Music, Mike Scott e soci mi hasso da sempre ossessionato. Dunque per uno come me, aver l’occasione di assistere ad una sorta di reunion (cara, vecchia line up!), con i redivivi e scalcianti  Steve Wickham ed Anto Thistlethwaite, è stato come affrontare nostalgia, dolore e salvezza tutt’uno, indiscernibili. Un Mike Scott ignaro del tempo, con doti vocali sbalorditive, introduce una performance di rara intensità e generosità (quasi due ore di concerto), per una scaletta divaricata equamente su due fronti entrambi tradizionalmente consustanziali alla storia della band – il celt-folk(lorico) e il rock a forte componente new wave. Così è Strange Boat, col poco di un’acustica e violino, dal sapore green grass, ad aprire le danze, seguita dalla dolcissima Sweet Thing (Van Morrison) – dunque nel solco della tradizione per tutta la prima parte, dove a spiccare per bellezza stanno i traditional When We Will Be Married e Raggle Taggle Gypsy, vere gemme galvanizzanti una platea nutrita e osannante. Un lungo excursus che rivede – e raramente corregge – pezzi di storia da Don’t Bang The Drum a The Whole Of The Moon. Ma è sulle note di We Will Not Be Lovers – il distacco cede il passo al mio fan-atismo, lo ammetto –, con chitarra satura e un fiddle sbalorditivo, che la band ripercorre la gloria infinita, fatta di struggimento e rabbia virile, di una collezione di perle, linea ascendente ordita per l’esplosione apicale del classico Fisherman’s Blues, folla letteralmente in visibilio. Due i bis, e nessuno si rassegnava a lasciarli andar via. Dal canto mio, ho saldato il personale debito con i Waterboys, e da qualche parte, oltre la coltre nostalgica e l’acqua passata, qualcosa è stato pacificato. L’universo è allineato, almeno per una sera.

Gioele Valenti

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