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SUN KIL MOON

Auditorium Parco della Musica | Roma | 8 giugno 2015

Come le emozioni secondo Paolo Sorrentino, ma per interposta maschera di Harvey Keitel e Michael Caine, anche le canzoni di Mark Kozelek sono sopravvalutate e sono tutto ciò che abbiamo. Contraddizione solo apparente se è pur vero che -e il bel concerto romano “dei” Sun Kil Moon (da annotare in cronaca l’inedito assetto da “superband”, con Steve Shelley alla prima delle due batterie e Neil Halsted alla chitarra elettrica) lo ha confermato- le canzoni di Kozelek non sono poi tante ma, in fondo, una soltanto.
Lo si capisce quando anche i saluti per il cerimoniale di commiato ante bis si fanno a poco a poco, ma “naturalmente”, canzone a loro volta, che zampilla dalla bocca di Kozelek lì, in quell’unico e singolare (e dunque tanto più irripetibile) istante nel tempo. Nessuno, dopo il concerto, potrà più (ri)sentire quella canzone. Una canzone, certo, anzi: una frase, anzi, meglio ancora: un verso infinito, qualcosa (di nuovo chioserebbe il Caine di Sorrentino) “che c’è e basta”. E a cui non serve commento (o saluto) che già non sia esso stesso parte suonante e cantante di una “messa in musica” che si canta e si suona da sé, in real time, attimo per attimo, “prendendo dentro” tutto, per così dire, compreso il pubblico. Che ascolta sgomento e si ritrova fatto canzone.

Scorrono, intervallati da frasi svogliate, per lo più di circostanza, brani nuovi dall’ultimo Universal Themes, i quali vanno mescolandosi a materiale un po’ meno recente. Ma la resa è compatta. Nella canzone di Kozelek, si sa, rifluiscono minimi detriti e rivoli di vita quotidiana: la vita di un uomo non più giovane né bello (e viene da sorridere pensando a quella cena declinata da Jane Fonda durante le riprese di Youth), che medita sulla morte e sulla vecchiaia, ma senza seguire un filo, sempre divagando, come disperso nel mistero della propria finitudine.
Partono Carissa e I Watched the Film the Song Remains the Same e con esse ricomincia per tutti anche un viaggio da fermi nella quinta dimensione del nostro essere ancora umani, dopo tutto: la dimensione dell’ordinario, del tempo morto, effimero, spesso buttato, talvolta insignificante, talaltra sgradevole (o doloroso), a cui Kozelek resta legato da un patto di fedele testimonianza “in prima persona”, scorticato di ogni eroismo.

Nella canzone di Kozelek non c’è (non c’è mai stato) spazio per il mito né tanto meno per la favola edificante a lieto fine. La canzone di Kozelek è una pellicola fotografica, iperreale, sulla quale si stende, fotogramma dopo fotogramma, il racconto di essere chiunque. Come il personaggio della Grande Bellezza che ogni giorno si faceva una foto, come tutti noi e come il drammaturgo di Charlie Kaufman sprofondato sotto il peso di una “synecdoche” paranoide che voleva fare dell’arte “il tutto per il tutto”, Kozelek continua a scrivere e riscrivere l’autobiografia universale di un uomo qualunque, inetto alla vita e impiastro sociale.

Uscendo nella cavea dell’Auditorium tutte le persone mi sembrano somigliarsi fra loro. Eppure evito di guardarle negli occhi, certo che ognuna di esse si rigiri in tasca la canzone semplice di Mark Kozelek.
Sempre uguale, sempre quella. Sua e di tutti.

Francesco Giordani

Setlist

 

  1. Little Rascals
  2. Mariette (Mark Kozelek & Desertshore cover)
  3. Hey You Bastards I’m Still Here (Mark Kozelek & Desertshore cover)
  4. Micheline
  5. Richard Ramirez Died Today of Natural Causes
  6. Carissa
  7. The Possum
  8. Ali/Spinks 2
  9. I Watched the Film the Song Remains the Same
  10. Dogs
  11. I Can’t Live Without My Mother’s Love
  12. This Is My First Day and I’m Indian and I Work at a Gas Station

 

Encore:

  1. Ceiling Gazing (Mark Kozelek & Jimmy LaValle cover)
  2. Caroline (Mark Kozelek & Jimmy LaValle cover)

 

 

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