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RAPPORTO DA CANNES

di BRUNO FORNARA

 I voti vanno dall’1 (scadente) al 5 (ottimo)

 

“Io e te” di Bernardo Bertolucci
Mi viene un po’ difficile parlare di questo film. Perché è di un Bertolucci tornato al cinema. Perché è un piccolo film, quasi indifeso. Perché oltre tutti i difetti che ha è pur sempre un film al fianco di un ragazzo e una ragazza, spersi tra adulti lontani, o feriti, o inerti. Dal racconto di Ammaniti. Lui è adolescente, non parla quasi con nessuno, la madre è come non averla, lui dice di andare alla settimana bianca con la scuola, invece si chiude in cantina, solo con le cuffiette e il rock nelle orecchie. In cantina arriva la sorella, fuori di testa, strafatta, in cerca di uno scatolone con le sue cose, lei che se n’è andata dopo un furioso litigio con la madre. Dunque, due giovani che non vanno d’accordo con il mondo, e vengono in mente i tre protagonisti di “The Dreamers” con non stavano in cantina ma nella tenda in salotto. Bertolucci sta dalla loro parte, a fianco di ogni dreamer, fino alla promessa che i due si scambiano, prima di uscire di nuovo per strada, prima di tornare alla luce del sole, promessa per lui di aprirsi agli altri, per lei di non bucarsi più. Film rinserrato, chiuso al buio, film minimo, con tenerezze difficili e nascoste, film malato e inguaribile. Voto 3, perché è di Bertolucci.

“Holy Motors” di Leos Carax – “Post tenebras lux” di Carlos Reygadas

Bisogna mettere insieme questi due film. Tra quelli in concorso sono i più singolari, discussi, amatiodiati, fuori linea, quelli che dividono i critici e divideranno gli spettatori. Bisogna metterli insieme perché entrambi si allontanano su sentieri poco battuti: quello di Carax verso un fantasismo surreale e surcinematografico; quello di Reygadas verso una primitiva e diavolesca frantumazione del racconto, degli spazi, del tempo. Carax ha come portavoce un signor Oscar (il suo attore di sempre, Denis Lavant) che ha un’intensa e impegnativa giornata davanti a sé. Lo aspettano nove appuntamenti. Nel primo, Oscar, che può essere uno, nessuno o nove, si infila in una bianca limousine, guidata dalla bionda Edith Scob, l’attrice di “Occhi senza volto” di Georges Franju (1960), e diventa un uomo d’affari duro e deciso, poi quando scende dalla macchina è una vecchia mendicante romena piegata in due dall’età, come a dire che Carax passa senza battere ciglio dal punto più alto della scala sociale a quello più basso. Arrivano poi un mimo che danza in uno studio cinematografico con addosso una di quelle tute con le luci che si usano per registrare i movimenti – termine tecnico: motion capture – e trasferirli in sequenze digitali: e qui il corpo non esiste più, diventa solo linee luminose, acrobatico e aereo indicatore di geometrie, invisibile virtualità; quindi Oscar si fa killer, poi uomomerda abitante delle fogne, poi vecchio morente… Fino a che, in una sequenza finale quasi da cartone animato, sceso Oscar dalla macchina, tante limousine si ritrovano tutte insieme parcheggiate in un immenso garage, perché ci devono essere tanti Oscar in giro per Parigi, tante ex persone che non aspirano ad altro che essere, ognuno, tanti personaggi tante volte al giorno. E le macchine, le holy motors del titolo, parlano tra loro accendendo e spegnendo le luci di posizione. A noi il film non è sembrato particolarmente nuovo e neppure sorprendente come dicono i critici francesi che si sono lasciati andare a inni, canti di vittoria e assegnazioni preventive di palme d’oro. C’è in questo film a nove episodi, più il sigillo finale del colloquio tra le limousine, un’aria vecchiotta e pirandelliana, un po’ surrealista e un altro po’ futurista, che lo fa sembrare, più che uno sguardo sul futuro del postumano e del postcinema, un affranto ricordo di tempi lontani in cui si potevano inventare di queste mirabolanti avventure trasformiste senza sembrare passatisti. Voto 2. A Carax affianchiamo “Post tenebras lux” del messicano Carlos Reygadas (“Japon”, Battaglia nel cielo”), perché anche qui si fuoriesce abbondantemente dalla ‘normalità’ cinematografica. Nella bellissima sequenza di apertura (…e questo bellissima tradisce già la nostra preferenza verso questo film rispetto a quello di Carax) c’è una bambina piccola in mezzo a un campo da calcio, dentro una natura rigogliosa, sotto un cielo che si fa sempre più scuro e pesante, con tante mucche e tanti cani in giro. La bambina, che chiama la mamma e si diverte tra le mucche e i cani, viene guardata dalla macchina da presa e lei ci guarda guardando in macchina. Quel che più conta è che l’immagine è a fuoco nella parte centrale del quadro, mentre va sfuocando verso i margini dove si sdoppia. Di chi è questo sguardo così forte, limpido e al tempo stesso sfuocato, chiaro e al tempo stesso raddoppiato? È questa solo la prima di un’infinità, davvero un’infinità di domande che il film pone al suo spettatore: perché non solo le immagini risultano essere ‘strane’ ma anche perché gli eventi sono messi in fila secondo un ordine disordinato e non sequenziale, lungo un susseguirsi di salti temporali e spaziali imbarazzanti, sovente irrisolvibili (non che si debba per forza ricostruire il puzzle e “mettere ordine” nel racconto; il film va benone anche lasciato così com’è; però, ci è sembrato che fosse il film stesso a chiamarci a questo esercizio di ricomposizione, almeno parziale, come se Reygadas volesse che ci mettessimo anche noi all’opera per riportare un qualche frammento al posto giusto…). E allora: quando dobbiamo inserire nella nostra ricostruzione mentale del film la sequenza (francese?) nella sala Duchamp (anche qui c’è puzza di bruciato infernale e di sulfurea avanguardia…) dentro la sauna per scambisti (che parlano francese) dove si reca la coppia protagonista del film (almeno di questo siamo sicuri) e la donna ha un appassionato rapporto sessuale con uno degli ospiti? E la sequenza iniziale della bambina e delle mucche va messa (forse) alla fine di tutto il film quando il delitto è avvenuto? Bisogna (forse) allora, per affrontare il compito di stare dentro al film, tornare alla seconda sequenza, dove appare la sorprendente silhouette rosso fuoco di un caprone-diavolo, abbagliante, fosforescente, nudo, con sesso penzolante e lunga coda che finisce, come vuole la tradizione popolare, a punta di freccia, capro diabolico che si aggira in una casa con una valigetta e viene guardato da un bambino mentre gli altri dormono. Potrebbe (forse) essere lo sguardo di questo diavolo commesso viaggiatore, che porta in giro per il verdissimo Messico, tra boschi laghi montagne, il suo campionario di orrori, incertezze e nefandezze, potrebbe (forse) essere il suo sguardo a comporre le immagini sfuocate e doppie e limpide e perfette del film e il suo diabolico modo di pensare a scombinare i tempi e gli spazi? Ci è venuto da pensare a questo perché il diavolo torna ancora, più che mai rosso e luccicante, poco prima della fine del film, poco prima che il film si concluda in una esultante (per il diavolo!) scena di stupefacente e anche comica automutilazione suicida del colpevole di omicidio che ci lascia a bocca aperta. Reygadas regista vuole accanto a sé un diavolo per dare al film questo tono maestoso, verso la natura, e orribile, verso gli uomini. C’è anche chi ha detto che questo film è convenzionale, già visto, da autore che si autoproclama tale. Può essere. Le vie del diavolo sono infinite. Voto 3½.

“On the Road” di Walter Salles

Se non avessi saputo che questo “On the Road” era tratto dal romanzo diario (1957) di Jack Kerouac avrei pensato a un titolo usurpato, stando almeno a quel che si vede nella prima ora. Kerouac non mi sarebbe venuto in mente. Tantissimi i film on the road. Nessuno dal libro di Kerouac. Qualcosa vorrà pur dire. Nel film non ci sono Kerouac, Ginsberg, Burroughs e gli altri della partita. Ci sono dei giovanotti che bevono, cercano di farsi delle ragazze, si fanno piuttosto di erba e altro, sono dei bohèmiens tristi, mentre il film avanza piatto e moribondo dal principio alla fine. Chi vuol sapere qualcosa della beat generation non si rifaccia al film di Salles. Voto 1.

“Journal de France” di Claudine Nougaret e Raymond Depardon

Chi non conosce Depardon, la sua vita di fotografo, di cineasta, di esploratore del mondo e della storia, può cominciare da questo lavoro. C’è la storia dell’impegno pluridecennale di Depardon, che di professione ha fatto il reporter in Biafra, nella Praga invasa dai carri armati sovietici, in tante Afriche, anche quella del dittatore Bokassa, in Italia nei manicomi di Venezia prima che Basaglia li chiudesse, tra i contadini di ogni parte del mondo e in tutta la Francia, a Parigi tra i politici come Giscard, messo all’angolo da Depardon per l’affaire della cooperante, entomologa e archeologa, Françoise Claustre, sequestrata dai ribelli nel Ciad, nel 1974, quando Giscard mise in atto trattative segrete con il dittatore del Ciad e Depardon riuscì a intervistare la Claustre creando uno scandalo che portò alla liberazione dei sequestrati. E questa è una metà del film. Poi c’è l’altra metà che è il Raymond Depardon di oggi che ha ancora voglia di mettersi in viaggio con un furgone, con l’attrezzatura per fotografare e gira la Francia per le strade minori e le campagne, si ferma a fotografare un ponte, una passeggiata sul mare, soprattutto le tabaccherie e i negozietti di paese. Depardon sa individuare il posto giusto e trovare l’inquadratura giusta. Si deposita nelle sue fotografie di paesaggio, di case, di campagne, di vecchietti seduti su una panchina l’aria di una Francia che forse non c’è neanche più (anche se lui la sta fotografando). Voto 3.
“Djeca” di Aida Begic

Aspettavamo con attenzione il secondo film di Aida Begic, regista bosniaca. Il suo primo, “Snow”, presentato alla Quinzaine nel 2008 era bello ed emozionante. Questo suo “Djeca” non ci ha convinti. Due i personaggi in gioco: Rahima ha 23 anni, si è fatta musulmana, lavora in un ristorante, fuma, è decisa, si libera di tutti quelli che le stanno intorno. Suo fratello Nedim di anni ne ha 14, è diabetico e tende alla piccola delinquenza. Sono orfani della guerra in Bosnia, stanno a Sarajevo. Nedim finisce nei guai quando si scontra con il figlio di un ministro. Il tempo della guerra è finito e viene evocato con immagini d’archivio. Il tempo della guerra non è ancora finito perché l’oggi è corrotto, il potere orribile, mercato nero, traffici. Macchina in spalla, punto di vista di Rahima, movimenti continui, itinerari nella città. È qui che il film non funziona. Si gira ovunque e non ci si fissa su qualcosa. Voto 2.

“Elefante blanco” di Pablo Trapero

Una bidonville di Buenos  Aires. Ci vivono due preti, Julian e Nicolas, sono amici, aiutano la gente. Julian vorrebbe costruire un ospedale. Nicolas, dopo un tentativo di lavorare a favore degli indigeni delle foreste, fatti fuori dalla polizia, è tornato in città e ha incontrato Luciana, assistente sociale, con la quale comincia una relazione. Le tensioni nella bidonville aumentano e crescono ancora quando i lavori per l’ospedale vengono sospesi. L’esclusione sociale, l’impegno dei sacerdoti (anche contro la posizione della chiesa), la favela come lo scalino più basso della piramide per gli esclusi dalla metropoli, la favela come primo passo verso una desiderata emersione sociale per chi viene dalle campagne e dall’interno del paese. Bello il rapporto tra i preti e la gente, diretto, dentro le cose, dentro i progetti. La bidonville è sia una fortezza dove trovare riparo per narcotrafficanti e criminali, sia un luogo dove si può tentare un qualche riscatto. I traumi, gli sforzi, le lotte, gli errori sono detti da una macchina da presa attiva, mobile, presente, come partecipe a quello che sta succedendo, nel bene e nel male. Voto 3½.

“Rengaine” di Rachid Djaïdani

Un’altra bella scoperta. Rengaine significa cantilena, solfa, tiritera, ritornello, tormentone. Rachid Djaïdani, padre algerino, madre sudanese, quarto figlio di undici (nove sorelle), muratore, piastrellista e parquettista, ex campione di boxe, attore per Peter Brook, attore per Kassowitz, romanziere (“Boumkoeur”, “Mon nerf”, “Visceral”), documentarista, ci mette nove anni, senza finanziamenti, per girare e finire “Rengaine”. Arriva alla Quinzaine e ha un applauso di venti minuti, segno che il film, senza perder tempo, in 75 minuti tesi e stringati (tirati fuori da un girato di 400 ore!) arriva a cuore pancia testa di tutti. Parigi, là dove le etnie si sovrappongono, si mescolano senza sciogliersi, si scontrano. Il maghrebino, mussulmano e molto irritabile Slimane è il più vecchio di ben 40 fratelli 40. Il nero (anzi: ‘négro’), cristiano e troppo docile Dorcy vuole sposare Sabrina, una delle sorelle di Slimane. Slimane vuole trovare Dorcy e pestarlo, magari anche farlo fuori perché non sposi Sabrina. Scontro di fedi costumi tabù modi di vivere e pensare. Siamo nel pentolone del razzismo più radicato e insensato e siamo anche dentro a tanti di quei film multietnici che abbiamo visto in questi anni. Ma “Rengaine” non è multietnico come troppi altri film (che ormai finiscono per essere, il più delle volte, banali e consolatori). Uno: perché al conflitto arabi–neri si aggiunge un’ulteriore nota di colore religioso dato che Slimane non può vedere i neri cristiani ma ha una relazione con una ragazza ebrea, relazione che tiene ben nascosta. Due: perché bisogna aggiungere anche la mamma nera di Dorcy, che fa la pettinatrice e che non vuole che il figlio sposi una bianca perché lei i nipotini li desidera proprio nerineri.  Tre: perché le discussioni, anche molto accese, tra i diversi gruppi contrapposti sono piene di fantasiose e popolari sciocchezze, tanto che si ride molto dei pregiudizi degli uni, degli altri e degli altri ancora e il film si riempie imprevedibilmente di humour. Quattro: perché il percorso narrativo è frammentato e spiazzante, visto che si passa da Slimane in cerca di Dorcy, a Dorcy che cerca lavoro come attore, con i due itinerari costellati da tanti incontri, ora caotici, ora distesi, ora silenziosi, ora parlatissimi. Cinque: perché Dorcy un lavoro come attore lo trova ed è un momento incredibile, che neanche Godard si è mai immaginato una cosa simile (premio per la migliore scena a sorpresa e a effetto di tutto il festival). Sei: perché uno dei 39 fratelli di Slimane è omosessuale ed è stato da tempo scartato dalla famiglia. Sette: perché Djaïdani gira come un Cassavetes della banlieue, sta addosso ai personaggi, frammenta le scene, eppure le sa tenere assieme con sicura precisione. Otto: perché il film-mosaico trova alla fine una perfetta ricomposizione, sia narrativa che emozionale, nella più che condivisibile invocazione a tutti gli dei clementi e misericordiosi, quali che siano i loro nomi, perché si mettano finalmente insieme al fianco di tutti noi. Film libero e scorretto religiosamente politicamente linguisticamente. Ha detto Djaïdani che la realizzazione “è stata un combattimento intenso che mi ha obbligato a superare ogni limite. Ho l’impressione di aver scalato l’Everest con un sacco di 50 kg sulle spalle”. Accogliamo Rachid Djaïdani, scalatore cinematografico autodidatta, nel novero dei registi che apprezziamo fin dal primo film. Voto 4.

“The Angel’s Share” (La parte degli angeli) di Ken Loach

Lo sappiamo che Loach alterna film buoni ad altri modesti. Questo è buono ed è una commedia divertente e istruttiva. Continua la linea di “Il mio amico Eric”, di un Loach che sta dentro i sobborghi, la classe operaia, i giovani senza lavoro e gli regala un futuro. In più, motivo centrale e vera morale della storia è che il whisky ha valore infinito come leva di riscatto umano e sociale, e già questa è una bella notizia. A Glasgow, Robbie diventa papà di un bambino ma si trova, di giorno in giorno, prigioniero del suo passato di delinquente violento. Il giudice lo grazia, non lo manda in carcere ma ai lavori socialmente utili dove incontra Rhino, Albert, la ladruncola Mo e soprattutto un educatore, Henri, che insegna ai ragazzi come mettere la testa a posto, come si deve imparare ad amare il whisky e addirittura come si può diventare raffinati conoscitori e assaggiatori di whisky fino a farne un mestiere. Le distillerie scozzesi, una botte centenaria, i sottotitoli inglesi perché anche per loro la parlata è ostica, fuck a profusione, molte risate, un inizio memorabile con la voce di Dio, nientemeno, che ordina a uno dei giovanotti di allontanarsi dai binari del treno… Cosa sarà mai ‘la parte degli angeli’? Voto 3½.

“Killing Them Softly” di Andrew Dominik

Questa è una recensione facile. Poker illegale irruzione sparatorie sangue pestaggi mafia Brad Pitt assassini stanchi immagini flou soldi ralenti delinquenti Bush Johnny Cash pioggia shit voto 2 macchine pestaggi fuck soldi vomito lacca sui capelli Obama barocchismo stanco Mickey cazzotti Squirrel ‘Heroine’ Velvet Underground shit fucile a canne supermozze Do the best you can Polly la cerniera lampo She was so fucking beautiful racconti fuck ricordi dialoghi I can’t go out Trattman fuck una Bud shit parcheggi sotterranei Cadillac obitorio You are a cynical bastard Thomas Jefferson. America is not a country is just a business. La battuta Fucking pay me chiude il film. Tutto qua.

“No” di Pablo Larraín

“No” è – finora – il miglior film del Festival: e non si capisce perché non sia in concorso, ma alla Quinzaine – che del Festival non fa parte -, dove peraltro Larraín è “nato” come regista con il suo “Toni Manero”. “No” racconta le vicende della campagna referendaria del 1988, quando Augusto Pinochet, pensando di rafforzarsi, chiese ai cileni se lo volessero ancora al potere fino al 1997 oppure se volessero farla finita con la dittatura. Vinse il no. Come abbia trionfato l’opposizione e come ci si sia liberati del potente dittatore, è quello che il film racconta.  Quel 1988 era la prima volta che i partiti di opposizione potevano far sentire la loro voce anche in tv: erano previsti degli spot di 15 minuti ogni settimana sia per il governo che per le tredici formazioni dell’opposizione, unite nel fronte del no. Larraín, che parte da una piéce di Antonio Skarmeta, “Referendum”, racconta come andarono le cose nei mesi della campagna elettorale che portò alla scomparsa politica del tiranno. Nel film sembra di essere dentro quel tempo, viverne le attese: insicure, sentirne le speranze: fondate, patirne tutte le paure: la polizia politica, le minacce fisiche e psicologiche. C’è un personaggio principale che fa da perno, è il giovane pubblicitario René Saavedra, tornato in Cile dopo anni di esilio in Messico (l’attore è Gael García Bernal), molto bravo nel suo mestiere, molto scafato, che sa bene come l’arma pubblicitaria abbia la forza di imporre opinioni e che lavora in una grossa agenzia il cui capo è molto vicino al potere politico tanto da condurre e costruire la campagna per il sì. Il capo per il sì, il sottoposto per il no. René vede in questa impresa una sfida anche professionale: e difatti tira fuori tutti i ferri del suo mestiere, anche contro il parere di molti uomini politici che vorrebbero una campagna basata su motivi e temi sociali, economici, politici, le torture, la fame, la disoccupazione, la scomparsa di tante persone. A questa impostazione “tragica” René contrappone una visione basata totalmente sulla speranza di una rosea e arcobalenica felicità a venire. Per lui la democrazia è un prodotto da smerciare, da vendere, da imporre per le attrazioni che propone, il benessere, l’avvenire, la pace, anche la felicità. Il René del film è un personaggio inventato. La campagna della sinistra venne gestita da un pool di persone; ma René riassume benissimo tutto il lavoro che allora si fece, un lavoro di convincimento positivo, anche illusorio, che portò incredibilmente alla vittoria. Se René è inventato, gli spot che si vedono nel film sono invece proprio quelli di allora. La canzone di battaglia (“Qui ci vuole un jingle!”) si può ascoltare su You Tube, titolo “Chile la Alegria ya viene”. Magnifici e rivelatori, nella loro imbecillità, sono gli spot del sì, con un Pinochet buon papà, uomo della provvidenza, politico che pensa di essere eterno. Larraín era partito come regista con ˝Toni Manero”, film ambientato nel lugubre 1978, su un piccolo e oscuro omicida seriale che vorrebbe essere ballerino come il John Travolta della “Febbre del sabato sera”; poi era tornato indietro, con “Post mortem”, al momento del colpo di stato e dell’uccisione di Allende con un personaggio che lavora all’obitorio e che il cadavere di Allende se lo vede sul tavolo dell’autopsia… Adesso fa un passo avanti verso l’oggi e già aspettiamo di vederlo avanzare ancora più verso di noi: Larraín, classe 1976, cresciuto sotto il regime, ci sembra il migliore tra i giovani registi rivelatisi negli ultimi anni, uno che inventa forme di cinema, modi di ripensare il passato, di scavarlo, riportarcelo qui. Questo “No” non ha niente del film trionfalistico, non mette in scena il progredire verso una vittoria, guarda a quel 1988 come a un momento in cui lo scontro con il regime deve vincere usando i metodi della propaganda pubblicitaria più fasulla, gruppi di famiglia felici e saltellanti, ballerini e ballerine che danzano per la democrazia, un supereroe che avanza verso un futuro meraviglioso. E la propaganda del potere e del sì deve rincorrere e scimiottare questa del no. Quello che fa di “No” un grande film è anche un’altra cosa: è il suo adottare, come forma di costruzione delle immagini girate oggi e ambientate nel 1988, la stessa bassa definizione delle immagini di allora. Non c’è nessun salto di tono, composizione, colore e grana tra il film girato oggi e i materiali di tanti anni fa: questo perché le scene girate oggi sono state realizzate con il sistema in uso allora, il 3/4 U-Matic. Il che crea un potente effetto di avvicinamento di quell’epoca alla nostra, del Cile del moribondo Pinochet con il Cile di adesso. Il risultato, potente, è che lo spettatore si chiede quanto di quella felicità promessa sia stata poi raggiunta, quanto si siano chiariti e puniti i crimini della dittatura, quanto Pinochet, morto nel 2006, sia stato ‘eliminato’ dalla vita del Cile. “No” elimina uno spazio di venticinque anni. Ti trascina nell’allora e ti fa pensare all’oggi. Voto 5.

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