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PETER DOHERTY

Atlantico Live, Roma
9 Febbraio 2012

 

Dieci anni trascorsi dal fulminante debutto dei Libertines a quest’ultima tournée  europea, acustica e solitaria di Pete Doherty: un milione di esperienze accese e bruciate nel frattempo, non sempre il vento in poppa, il motore comunque a cento all’ora. Band sfasciate, altre rimesse in piedi, litigi, sigarette, tradimenti, sbronze, chitarre scordate, calcio, arresti, prigione, tentati suicidi, amore per la poesia, crack ed eroina, tribunali, viaggi esotici per finte disintossicazioni, cappelli, cicatrici, amiche ‘maledette’ e fidanzate famose. Rock and roll. A trentadue anni Peter è ancora qui, cresciuto in pubblico con la chitarra a tracolla e il suo solito sorriso impertinente, l’aria stropicciata da pugile suonato, scoordinato nelle movenze, buffo come un Pippo bohemien in stile Disney Dandy Punk. Ha sfidato la morte, sa di essere un sopravvissuto e forse anche l’ultima, autentica rockstar inglese: in lui abbiamo amato il talento umorale e la sregolatezza, l’imprevedibilità e il fascino dannato di alcune delle sue canzoni più evocative o chiassose.
 Ai tempi dei Libertines e dei Babyshambles sembrava sempre sul punto di cedere, costantemente ad un passo dalla rovinosa caduta. Chissà come, però, riusciva a dominare quei demoni e riportare in porto la zattera al riparo dalla tempesta. E stasera eccolo lì sul palco, a raccontare un’altra volta la sua esistenza spericolata. Tutto intorno, il suo nuovo pubblico: un migliaio di ragazzi e ragazze tra i 16 e i 25, con i loro smart phones e un adorante incitamento da stadio malgrado la sala sia piena neppure per metà.
Peccato per la location: per questo genere di show, senz’altro più intimo e confidenziale rispetto a quelli con la band, un luogo più caldo e raccolto sarebbe stato perfetto. Ma tant’è, non siamo certo a Londra. Accantonato con sollievo il gruppo spalla (grottesca brutta copia romana  e fuori tempo massimo dell’indie rock inglese più tagliente, melodico, chitarristico), archiviata frettolosamente la breve comparsata acustica di Soko (brunetta attrice e chansonnier francese costretta a ritirarsi nelle retrovie da un pubblico ormai surriscaldato), arriva lui, Pete.

Giacca nera e camicia azzurro chiaro. Boato, testi mandati a memoria e video-fonini pronti ad immortalare la serata. Souvenir che continuamente atterrano sul palco, dai reggiseni ai cappelli fino alle rose rosse e i calzettoni invernali imbottiti di dichiarazioni d’amore. Doherty accetta di buon grado tutto questo, all’occorrenza indossa in diretta quanto gli viene affettuosamente lanciato. Questa consapevolezza più di ogni altra cosa, la fiducia incondizionata dei suoi fans nella buona e, soprattutto, nella cattiva sorte, deve avergli dato la forza necessaria per portarsi fuori da tutte le acque più fangose. E allora ecco il suo set acustico, un’ora di spettacolo a ripercorrere la decennale carriera, dai Libertines al nuovo album che uscirà entro l’anno. Una dopo l’altra, saltano fuori dalle corde le canzoni più vecchie (“The Boy Looked at Johnny”; “Music When The Lights Go Out”; “Cant’ Stand Me Now”; “What Katie Did”), mescolate al passato prossimo targato Babyshambles (“Albion”; “Killamangiro”; “Back From The Dead”) e il presente solista (“Arcady”; “Last of The English Roses”). Finalmente il Nostro sembra essere perfettamente presente a sé stesso, in grado di offrire agli spettatori un concerto in cui protagonista sia la sua musica e non le chiacchiere, il gossip o le provocazioni. I pezzi si susseguono sfilacciati come il mood del loro autore, spesso legati insieme in una sorta di “flusso di coscienza”. Sul palco, più volte è raggiunto da due giovani ballerine in tutù nero e oro, che improvvisano passi di danza, oltre che dall’amico fraterno Peter Wolfe (alias Wolfman) o la già citata Soko. Un amico italiano azzarda qualcosa alla pianola, ma non è granché. Resta Doherty il fulcro, il centro dell’attenzione: tutti gli occhi sono puntati su di lui, che durante la conclusiva “Fuck Forever” sembra posseduto da un’ombra del suo inquietante passato. Ma è soltanto un attimo. Si siede, conclude il pezzo, si rialza, saluta e se ne va. Chissà a cosa stava pensando.

Ariel Bertoldo

ph © Eugenio Corsetti/Francesca Romana Guarnaschelli

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