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KAMASI WASHINGTON

Milano | Tunnel | 11 novembre

Kamasi e la sua band incarnano tante cose, a volte persino troppe. La fusion ruspante, il Groove pirotecnico e funk sulla falsariga del Miles Davis elettrico, se non di Weather Report & C.; l’esibito post-Coltranismo del sassofonista band-leader (che sembra animato da una furia ancestrale, in molti solo, tanto da evocarmi un grande, scomparso sassofonista italiano: Massimo Urbani).

Insomma, tanta energia da sollevare il tetto del locale, fusa con la dolcezza swingante della cantante, e con qualche ammiccamento al mondo giovanile (la credibilità da strada, lontana da ogni elitarismo) che non guasta.

Kamasi è un fenomeno anche in termini di furbizia: ha capito che per conquistare un pubblico giovanile, come quello assiepato nel Tunnel di Milano (e in numeri sorprendenti!), serve qualche trucco. La cover di Voodoo Chile di Hendrix, in tal senso, rappresenta il momento chiave: i ragazzi vanno in visibilio, e Mosley (peraltro cantante notevole) trasforma il suo contrabbasso nella sei corde di Jimi, con tanto di feedback e wah-wah; anche la conclusiva cover di Jay-Z funziona a dovere: Washington è un degno erede del pirotecnico jazz-hop di uno Steve Coleman, e non manca di esibire le sue radici (tanto che, come noto, in questo 2015 ha collaborato anche con Kendrick Lamar).

Gli assoli dei batteristi sono altro momento di felice e (s)composto esibizionismo che sembra studiato per catturare l’attenzione del pubblico più verde.

In ogni caso, il fine perseguito – con tanta perspicacia – rimane nobile: Washington ha veramente (ri)portato il jazz sulla strada, e l’ha fatto senza abusare di retorica. Citare le sue fonti di ispirazione è impossibile, perché Kamasi e i suoi sei fidi collaboratori (cui si aggiunge, nel corso del concerto, il padre flautista) incarnano davvero tanta parte della storia del jazz, e la rendono accessibile, positivamente furiosa, dirompente.

La musica ha un impatto fisico quasi violento, eppure tocca livelli d’astrazione di regola riservati agli improvvisatori radicali dell’epoca free: di fatto, abbiamo a che fare con un ibrido affascinante e unico. Un ibrido che, a dispetto della complessità formale e del superiore virtuosismo di alcuni strumentisti, risulta davvero coinvolgente e alla portata di tutti.

Quasi tutti i brani sono bombe a orologeria scaraventate sul pubblico: Re Run Home, Henrietta Our HeroThe Magnificient Seven sono scariche di adrenalina che si alternano a momenti di quiete. Quiete apparente però: in realtà, il gruppo non concede tregua, è un ribollire di idee, assoli e groove che non conosce pace. La parola più giusta per descrivere il tutto, forse, è estasi; ma si tratta di estasi tutta terrena, radicalmente afroamericana, tattile.

Qualche appunto: il mixaggio non è sembrato proprio impeccabile (la fidanzata del cantante, Patrice Quinn, ha una voce splendida, ma in molti cori non la si sente proprio!).

Poco male: vedere Kamasi e la sua band rimane un’esperienza, nel migliore dei sensi possibili

Francesco Buffoli

KW

 

 

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