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JOAN BAEZ

Gardone Riviera | Anfiteatro del Vittoriale | 14 luglio

A living legend: per una volta, l’espressione si adatta a descrivere l’artista sul palco senza retorica. La cantautrice canuta sprizza energia da ogni poro, a dispetto dei settantacinque anni suonati, e così la sua performance – complice la cornice dell’anfiteatro del Vittoriale, neoclassica e meravigliosamente decadente – rapisce il pubblico per un’ora e mezza abbondante.

Joan Baez, esattamente come l’amico Robert Zimmermann, incarna una forma di mitologia puramente americana. Il suo folk suona “pulito” (è pur sempre l’usignolo che incantò Woodstock giusto 47 anni orsono), meno ruvido rispetto al talking blues di Dylan, più tradizionalmente “musicale”, e mostra quindi legami di sangue stretti con una tradizione di forte impronta britannica. Ma gli scenari sono tutti americani: Joan Baez appartiene alla cerchia dei Kerouac, dei Ginsberg, di Walt Whitman, dei predicatori che si avventuravano verso la frontiera con la Bibbia fra le mani. Appartiene forse anche a un’altra epoca, segnata da un’euforia collettiva irripetibile, in cui le sue istanze libertarie si muovevano in sintonia con una storia fatta di sit-in, marce per i diritti civili, We Shall Overcome.

Veniamo ai brani: Joan Baez alterna due chitarre acustiche (una dal suono più corposo, l’altra più rarefatto), e sul palco con lei si scambiano numerosi strumenti (percussioni, violino, banjo) due accompagnatori di vaglia. Un mondo d’amore prelude ad alcuni fra i pezzi forti del suo repertorio: l’intensa God is God (che esprime il suo potente afflato religioso), la straordinaria, “ispanica”, e impegnata Deportee (che racconta di una tragedia area degli anni ’40, e che pure suona quanto mai attuale), un paio di brani traditional che profumano di sud polveroso e di storie truci, ambientate in quel Far West che farà grande Johnny Cash (il tutto, con giri di chitarra che sembrano partoriti da un John Fahey un po’ più nervoso del solito).

L’Italia viene omaggiata in due ulteriori momenti (Bella Ciao e C’era un ragazzo che con me), ma il meglio arriva forse con i brani estrapolati dal repertorio visionario e mitomane di Dylan: Don think twice (It’s alright) mette i brividi, con le carezze del violino e la voce della Baez che sonda territori inesplorati; It’s All Over Now Baby Blue Non è da meno, con il suo lento incidere malinconico e con le tenebre che si fanno sempre più fitte. Here’s to You – adottata da Amnesty quale proprio inno  è la potente e commovente dedica a Sacco e Vanzetti, e chiude il cerchio.

Più che un concerto, un viaggio nella Storia, e un’esperienza indimenticabile.

Francesco Buffoli

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