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ELBOW | Firenze

| Teatro dell’Opera, 25 agosto

Gli Elbow giungono in Italia al termine di una prima tranche di tour mondiale baciata da gloria e ricchissime soddisfazioni. In questi ultimi anni i concerti della band britannica nel Belpaese non sono stati poi così frequenti, per usare un eufemismo, e ciò indubbiamente giustifica le altissime aspettative di un pubblico non esageratamente numeroso eppure vispo, assai attento e partecipe, ma  sopra ogni altra cosa piacevolmente variegato (le nazionalità dei presenti, dall’Australia al Sud America, passando per Stati Uniti e un po’ tutta Italia, su invito dell’istrione Garvey, avranno modo di svelarsi a poco a poco, in un crescendo di sorprese, nel corso dell’esibizione).

Gli spazi esterni del nuovo Teatro dell’Opera di Firenze, situati a pochi passi dal Parco delle Cascine, sin dal primo colpo d’occhio si rivelano una cornice superlativa, assolutamente congrua per l’occasione. In attesa che il concerto abbia inizio non sono poche le persone che si avventurano alla scoperta degli spazi sinuosi della splendida costruzione. Di fronte al palco i gradoni di marmo della cavea si arrampicano gradualmente verso una veduta quasi a strapiombo della città, che a tratti toglie il respiro, mentre su tutta la possente ma disadorna architettura del teatro incombe il cielo stellato di una notte fresca, ventilata, che invita al silenzio e alla concentrazione. A detta dello stesso Garvey, la band non si è mai esibita in un luogo così bello. Un luogo del resto sin troppo simile alla musica degli Elbow, “nuda” ma anche vertiginosamente complessa, antica e futuribile, astratta eppure pulsante di vita, elegante e al contempo primitiva, spirituale non meno che concreta. Esattamente come la geometria senza tempo delle pietre, come l’equilibrio segreto di forze che le tiene assieme.
L’apertura della serata è affidata ai Marta Sui Tubi, i quali, dichiarata la propria ammirazione di lungo corso per la band di Manchester, regalano un’esibizione tesa e convinta, necessariamente breve ma molto felice, sia nelle esecuzioni che nella scelta ispirata dei brani.
Il quintetto inglese (in organico allargato, grazie all’aggiunta di due violiniste/coriste) non si fa aspettare. Il concerto si apre con un’esecuzione quanto mai luminosa della bellissima Charge che, quasi fungendo da proemio, definisce subito l’andatura e il tono generale dello spettacolo a venire. Il nitore “classico” e la pulizia del suono, la padronanza assoluta, “naturale”, delle trame compositive, restituite con misura e gentilezza alle orecchie del pubblico, caratterizzano un concerto senza sbalzi né strappi bruschi, compatto e stilisticamente coerente. L’ultimo album viene riproposto nella sua quasi interezza, ma non mancano ripescaggi dall’inevitabile The Seldom Seen Kid e dal successivo Build A Rocket Boys!. È dunque il suo ciclo poetico più recente quello che la band sceglie di rivisitare, assecondando un gusto risolutamente “prog” per digressioni o intermezzi strumentali dal passo lungo e disteso, ma mai pomposo o banalmente virtuosistico. Anzi, come già su disco, è proprio la leggerezza delle forme e della materia a costituire il piacevole leitmotiv della serata. Dal canto suo, Garvey, gioviale e rubicondo come un Orazio dei giorni nostri, bicchiere sempre in mano, puntella le canzoni con un’irresistibile aneddotica da bar, scherza sui suoi quarant’anni (d’altra parte il tempo è uno dei temi cruciali dell’ultimo lavoro), si siede in mezzo al pubblico, chiede battimano e cori a comando, fa cantare mamme e bambini, festeggia il compleanno del bassista Pete Turner, si lascia immortalare da smartphone e reflex mentre con il candore di un angelo in libera uscita volteggia sui nasi sollevati degli spettatori, in una specie di cabaret metafisico che entusiasma anche i più scettici.
Nell’encore una prevedibile, ma sempre ben accetta, One Day Like This srotola i titoli di coda di uno dei migliori concerti visti quest’anno da chi scrive. Gli Elbow sono ormai una delle formazioni musicali più significative e “uniche” del nostro tempo. La loro musica è un oggetto fatto di speranza e di bellezza che si offre alla presa sicura delle nostre mani, un luogo di perfetta felicità in cui tutti, prima o poi, dovrebbero provare ad abitare per qualche ora.

Francesco Giordani

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