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BLACK SABBATH

I Black Sabbath appartengono alla Storia, fenomeno oscuro e iconico di un paesaggio desolato e allo stesso tempo eccitante, etereo e terrifico. Inattesi, in tempo di peace and love, come il monolite kubrikiano in 2001: Odissea nello Spazio, Tony Iommi e soci forgiarono un suono rude e inconcusso, chiaramente teso tra il suono del loro tempo e l’appiglio di illustri antesignani, ma con una vis che era già Heavy Metal, o che, quantomeno, ne prefigurava le fosche nubi.
A loro il tempo del rock ha consegnato un testimone di granito solido. A tinte forti, tra visioni lussureggianti e slanci pop, la retrospettiva del nostro Gioele Valenti sul numero di Settembre.

…I Black Sabbath (come i coevi Led Zeppelin e Deep Purple, gli altri grandi pionieri dei prodromi metal) a ben vedere, almeno nella loro fase iniziale, esteticamente parlando avevano più a che fare con i fricchettoni reali degli anni 60, deriva beatnik più riconducente dunque alla vis del blues sotterraneo, di club sordidi (come solo in UK, i club sanno essere), che non al proto-machismo di motociclisti infoiati: ovvero mantenendo in nuce tutta la forza eversiva caotica e libertaria dei compagni americani, ma in una versione diremmo maggiormente “provinciale”: di fatto Sab e Zep, andavano in giro con camicie rustiche, pantaloni spandex, giacche frangiate e vestiti a dominanza pois (dunque, verso il ribelle/selvaggio, ma ancora di là da venire l’infatuazione per il “nero” e le sue più o meno genuine implicazioni maligne). Per dirla con Dave Navarro, “I Black Sabbath sono i Beatles dell’Heavy Metal.”
Di lì a poco, nel 1970, arrivò qualcosa che si potrebbe definire come l’atto di fondazione del metal nelle sue costituenti essenziali: fu la testa di ponte Judas Priest, seguiti a ruota da Saxon e Iron Maiden, a decretare la NWOBHM. Il manifesto anthemico dei Saxon recitava: “Denim and leather / brought us all together”.
Eppure, il metallo pesante, così come lo conosciamo, fenomeno storico e non necessariamente storicizzabile – sconfinata vastità sonora di un canone estetico dalle sembianze immortali, poiché eternamente riciclabili –, soprattutto nelle sue derive più “nere” (in accademica opposizione al filone detto “bianco”, che per diritto d’arbitrio tralasceremo), non sarebbe certo lo stesso, se Iommi e soci avessero deciso di fermarsi al di qua della frontiera blues (in famiglia con Cream e Grateful Dead), e non avessero invece osato sconfinare oltre la barriera del buio, guatando ad una Terra Incognita fatta della stessa trama dell’incubo, rompendo l’equilibrio polare tra bene e male, pendendo, ça va sans dire, il piatto della bilancia sabbathiana decisamente dalla parte del secondo (anche se come nel tempo verrà chiarito, il “satanismo” dei Sabbath rivelerà di sé più la forma che la sostanza, più un attingimento estetico che una veste morale: mero specchietto per le allodole)…

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

…Tre motivi per i quali James Hetfield (Metallica) sostiene l’importanza del primo disco dei Black Sabbath:
“Prima di tutto mi ha fatto cagare sotto dalla paura!
Poi ha spazzato via tutta quella merda ‘pace-e-amore’ che ancora trovavi in giro nei primi anni 70.
Terzo perché le mamme dei miei amici non volevano che lo possedessero”…

…Mentre USA e UK languivano nelle sabbie del folk e nella lisergia prodromica, emergeva il nuovo sound della classe operaia, l’acqua pesante (e dura!) di un congegno blues da pub di periferia. Quel sound era già Heavy Metal: non sapeva d’esserlo, e pure avrebbe ricodificato usi e costumi e stabilito il viatico per un’epica urbana, che è ancora storia dei nostri giorni…

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